Non si fa la rivoluzione

Come ben dice una canzone di Frankie Hi-Nrg. E’ veramente difficile cercare di trovare un senso logico alle azioni della popolazione. Certo è stato detto e scritto molto sul valore o disvalore delle manifestazioni popolari, chi ritiene che svelino la vera legittima volontà del popol sovrano, chi pessimisticamente (realisticamente?) ritiene che si perda tutta la carica creativa che è propria dell’individuo, se ne svilisce la capacità intellettuale ed espressiva in favore di un’omologazione fin troppo spesso manovrabile e manovrata. Circoscriviamo però il quadro degli venti. E’ la mattina del 30 novembre 2010 e si voterà alla Camera la riforma Gelmini (legge 1905), le proteste infuriano in ogni città universitaria d’Italia. Gli studenti nei giorni scorsi sono saliti sulla torre di Pisa, hanno “conquistato” il Colosseo, la Mole di Torino, la Basilica di Sant’Antonio a Padova, etc… Numerose le facoltà occupate, come Lettere e Filosofia di Padova al Palazzo Liviano, dove mi trovo. Dopo l’occupazione notturna che ha contato la proiezione serale di “Vieni via con me” di Fazio e Saviano su RaiTre (dove tra l’altro hanno parlato di noi, delle occupazioni e persino della Basilica del Santo), musica e ballo nell’Atrio della facoltà e infine dormita (per terra o sulle panche) dalle 3-4 circa alle 7.30, siamo quì a rimetterci in moto e chiacchierare. Dopo più di 2 ore dal risvegliamo ci siamo ormai quasi ripresi, i soliti organizzatori scambiano messaggi per accordarsi con le altre facoltà. E’ in previsione una serie di cortei/blocchi del traffico che dovrebbero poi unirsi in un punto comune, lo scopo è creare disagio. Scrivo mentre si chiacchiera e fuma una paglia, vedo qualche cartellone e una bandiera pirata ma poco altro a segnare l’occupazione, certo c’è gente in Atrio e le lezioni sono sospese, in parte per decisione dei singoli docenti e in parte su nostro invito, ma tendenzialmente si vuole rispettare questa giornata di protesta. L’attesa è pigra e vuota e dedico un titolo così aspro all’articolo perchè mi capita di scontrarmi con una delle tante contraddizioni che animano il movimento. Ho parlato con uno dei leader della facoltà, rappresentante, con cui sono in rapporti distesi e abbastanza cordiali, gli ho proposto di bendare la statua del Tito Livio, simbolo della facoltà, come gesto di valenza simbolica. Il grosso omone marmoreo chino sul libro bendato dall’attuale politica culturale del Paese. Forse è destino che il saggio non venga privato della facoltà di vedere, certo più ciechi siamo noi di lui e a lui dovremmo ispirarci nella dedizione allo studio. Non è di quest’ordine purtroppo la risposta, ne politica ne filosofica ne retorica, bensì di ordine legale. “Se tocchiamo la statua siamo passibili di denuncia” la risposta mi scoccia e mi sciocca. Come, anche se mi appoggio? “Se non ti appoggi tecnicamente puoi farlo” Rimango basito. Tu che stai per andare in strada a bloccare il traffico, coi tuoi ideali (suppongo) e le tue pratiche politiche senza bisogno di permessi, ti fai problemi di ordine legale rispetto a un atto simbolico non violento e non vandalico? Questo mi fa riflettere. Prima sulla dinamica di gruppo: in branco ci si deresponsabilizza, si può compiere qualsiasi cosa, è galvanizzante. Come individui con responsabilità civili e penali agire diventa scomodo. Poi approfondisco, vado oltre il malcontento. Che sia davvero a causa del radicamento della legalità? Certo è che il nostro popolo italiano è abituato a difendersi e a offendere usando la legge, il diritto. Può darsi forse che sia anche un radicato rispetto per la legge? Non so dire. Le leggi che vengono approvate scontentano in molti, e fomentano la nascita di gruppi locali attivi contro svariati problemi (no tav, no dal molin, proteste di Terzigno,etc…) evidenziando come le regole dei potenti non siano in grado di risolvere i problemi gravi e fattuali del Paese. Se però prendo per buono che in parte noi abbiamo un rispetto forte per la legalità, ne consegue che quando manifestiamo non lo facciamo per creare dei cambiamenti in qualcosa di nuovo, bensì per “ristabilire un modello ideale” di democrazia e legalità basato su quanto già prodotto dalla Storia, non si cerca insomma una soluzione nuova rispetto alla forma bensì si vorrebbe tornare a preseguire un modello di democrazia tradito e osteggiato, che nella nostra mente potrebbe portare al benessere e alla felicità. Su questo dunque l’istruzione statale avrebbe vinto, nel convincere la popolazione della bontà del sistema democratico repubblicano previsto dalla Costituzione. Non è mio intento dare un giudizio di merito in proposito, eppure è possibile che il sistema di welfare, di Stato sociale a cui si anela sia un sogno anacronistico rispetto al mondo attuale che viviamo. E’ pur vero che l’Utopia affascina e trascina e chi si muove per degli ideali va ammirato se agisce per propositi di uguaglianza e libertà per tutti, ma questo è più un sistema che un fine, un meccanismo e non l’essenza stessa della felicità. Chissà se siamo ancora in grado di pensare nuovi mezzi per realizzare il fine, coerenti con la realtà in cui viviamo.

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Una risposta a Non si fa la rivoluzione

  1. Rean scrive:

    Eccomi qui, mi salvo l’indirizzo 😉

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