Comunicato stampa

Giornata fredda, a Padova. Un grado e mezzo sopra lo zero, dicono. Allora perché mettersi a torso nudo, i polsi legati ad una catena d’acciaio? Perché la benzina costa troppo cara, sarebbe una buona risposta se si fosse in vena di ironia.
Legarsi, scoprirsi e procedere per la città patendo i rigori del clima, declamando alla città ed ai cittadini cosa studiamo e perché, nonostante tutto, vogliamo continuare a farlo, e a farlo in Italia, è un buon modo per esprimere concetti. No pain no gain, dicono gli anglofoni. Logica che per troppo tempo è stata applicata in una sola direzione: causare disservizi o danni per ottenere attenzione. Un atteggiamento che non è difficile definire, se non altro, infantile. Per formazione e per convinzioni non crediamo, non vogliamo credere nella violenza come modo di cambiare le cose in meglio. Citando John Lennon, prendendo le sue parole a prestito da altro contesto, combattere per la pace è come fare l’amore per la verginità. Crediamo, allo stesso modo, che non si possa costruire un buon futuro sulla violenza, che sia di piazza o di stato. Che non si possa pensare un mondo migliore in questo storto modo.
Abbiamo pensato, quindi, ad un modo diverso. A come dare testimonianza della nostra sofferenza in quanto studenti, in quanto cittadini, in quanto persone, per la strada presa da questo Paese, per quanto concerne la riforma dell’università, ma non solo: vogliamo sognare altri sogni, oltre ai nostri. Sogni di pace, libertà, futuro, creatività. Sogni di fare, di fare bene.
Lo studio è lavoro, il lavoro è pane, e il pane è futuro. Chiunque si sia trovato a dover pensare come costruire qualcosa che non serva solo a se stesso, si è trovato di fronte alla difficoltà di analizzare e di comprendere mille cose per poterlo fare nel miglior modo possibile. Il nostro intorno sociale, il nostro stato, il nostro mondo, ha bisogno di competenze, di persone che sappiano fare, e fare bene. Vogliamo costruire un Paese migliore, e ci scontriamo con la miopia di un governo, o meglio, di una classe dirigente (considerata più o meno nella sua interezza), che non ce lo vuole permettere, in difesa di personalissimi interessi che sono ormai passati davanti ai bisogni della gente, delle persone.
Per questo siamo scesi in piazza seminudi. Meglio rischiare la polmonite che le botte e i lacrimogeni. Meglio non rischiare di fare del male a qualcuno o di rompere qualcosa, se non noi stessi.
Vogliamo sperare che altri giovani si mettano nei nostri (non) panni. Vogliamo sperare che altri padri ed altre madri si mettano nei panni dei nostri padri e delle nostre madri, che provino ad immaginare cosa possano aver pensato o provato a vederci soffrire il freddo. Il freddo, tuttavia, è solo un simbolo. L’esternazione visibile di un male meno palese, ma non meno divorante, che oggi è nostro, e domani rischia di essere di tutti.
Vogliamo fare, datecene la possibilità.

Alcuni studenti

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